Giulio Scarpati "risponde" alle sirene di Un Medico in Famiglia, la decisione dell'attore e i suoi progetti
L’attore si racconta tra passato e futuro: dal successo in TV al teatro dell’anima, tra memoria, trasformazione e nuove sfide
Non gli piacciono le etichette ma, se proprio bisogna trovarne una, “giardiniere dell’anima” potrebbe avvicinarsi: Giulio Scarpati non recita, vive. E mentre vive, osserva, custodisce, ricorda. Questa non è un’intervista fatta di frasi preconfezionate, ma una conversazione vera, viva, con un uomo che ha attraversato il successo, il dolore, la scena e la solitudine con la stessa delicatezza con cui si accarezza una pianta malata. Senza mai scadere nella retorica o nella banalità, Scarpati ci conduce nel cuore del suo mestiere – che è molto più di un lavoro – e della sua visione del mondo.
Volto amato dal grande pubblico per il ruolo del dottor Lele Martini in Un medico in famiglia, Giulio Scarpati è molto di più di una figura televisiva. È un attore che ha attraversato decenni di cinema d’autore, teatro militante, fiction di qualità e monologhi poetici. È un uomo che sceglie i suoi progetti con cura, con una fame mai soddisfatta di autenticità e nuovo. Ha lavorato con grandi registi, scritto libri, portato in scena la fragilità e la forza della memoria. Ma soprattutto ha sempre cercato, con umiltà e rigore, un senso, uno sguardo, una verità.

Prova ne è ad esempio il cortometraggio Nereide (diretto da Alessandro D’Ambrosi e Santa De Santis e nato per celebrare il 160° anniversario del Corpo delle Capitanerie di Porto), di cui è protagonista e che verrà proiettato a metà giugno al Teatro Greco di Taormina per un evento speciale. Ma anche il documentario Le stanze di Verdi (diretto da Riccardo Marchesini con Pupi Avati), in cui Giulio Scarpati va alla scoperta delle terre in cui visse il compositore o lo spettacolo teatrale Qualcosa di nuovo nel sole, che lo vede in scena nel ruolo di Giovanni Pascoli.
Ma Giulio Scarpati ama anche la sfida televisiva. La prossima stagione sarà per Giulio Scarpati nel segno del rientro su Rai 1, in prima serata. La rete che ha ospitato il mai dimenticato Medico lo accoglierà all’interno delle storie di Cuori 3, terza stagione dell’amata serie con Pilar Fogliati e Matteo Martari, e dei misteri di Estranei, un giallo con Isabella Ferrari e Ricky Memphis.
“Il personaggio che interpreto in Nereide è un comandante in pensione, malato, che ha scelto di vivere in solitudine su una barca in rada”, esordisce Giulio Scarpati. “Mi ha colpito per la sua complessità e profondità: è un uomo alla fine del suo percorso, con un corpo segnato dalla malattia ma con una mente ancora viva, capace di romanticismo e poesia. Scrive lettere in bottiglia a chi lo ha salvato da bambino: un gesto surreale e poetico”.
“Questo intreccio tra dolore fisico, isolamento e desiderio di comunicare mi ha colpito molto. Mi ha anche permesso di trasformarmi fisicamente, cosa che amo fare per ogni ruolo: capelli lunghi, look trasandato. Era un’occasione per presentarmi in modo diverso, ma anche per esplorare il rapporto con una giovane della Guardia Costiera, che gli porta notizie e speranza e rappresenta il gancio con la realtà, o quello, quasi brusco, che ha con un ragazzo a cui cerca di spiegare il punto di vista sulle cose con la sua percezione ed esperienza. Tutto questo mi ha fatto dire sì, senza esitazioni”.
La parola chiave di Nereide può essere “ricordo”. È uno dei temi che ha mosso Giulio Scarpati ad accettare il ruolo?
“Il ricordo attraversa tutto il film e, in un certo senso, attraversa anche la mia vita e il mio lavoro. È un tema potente, capace di dare senso anche ai momenti più difficili. Il comandante di Nereide è un uomo che si nutre di memoria, che mantiene vivo un filo con il passato. Ma anche nei miei progetti recenti questo tema è centrale. Sto portando in scena un monologo sugli ultimi giorni di Giovanni Pascoli (scritto da Giuseppe Grattacaso, poeta e insegnante di liceo conosciuto quando ancora lavorava come giornalista per un’intervista), dove il poeta dialoga con il suo cane morto come se fosse ancora vivo facendo il bilancio della propria esistenza. Un testo struggente, che esplora la memoria come rifugio e come trappola, e che mi ha permesso di scoprire un autore lontano dalla banalizzazione di cui è vittima in letteratura: non solo il fanciullino ma anche l’amante dell’astronomia, per esempio. Oppure nel libro che ho scritto sull’Alzheimer di mia madre, Ti ricordi la casa rossa?: lì ho cercato di salvare i ricordi belli in mezzo alla devastazione della malattia”.
“Si è immaginato che io fossi a Piacenza per uno spettacolo, ma che le scenografie non fossero ancora arrivate. È così che inizio a visitare i luoghi legati a Verdi, spinto dalla curiosità. Scopro un uomo straordinario, non solo un grande compositore ma anche un imprenditore agricolo, un uomo pratico, concreto. Aveva caseifici, costruì un ospedale per i contadini e la sua musica aveva un grande legame anche con la terra. Un’umanità sorprendente. Quei giorni sono diventati per me un percorso dentro la sua vita, accompagnato da incontri con persone del luogo. È stato un viaggio improvvisato, ma intenso, pieno di scoperte. Mi ha permesso di raccontare Verdi in modo inedito, non accademico, e anche di riconnettermi con la mia voglia di capire, di ascoltare. È stata per me un’esperienza inedita: gli incontri erano improvvisati e, da curioso quale sono, dovevo porre le mie domande come se fossi un giornalista. Questo genere di lavori mi produce un effetto rigenerante: ti spingono a viaggiare con la mente, a inventarti e a capire”.
Nel caso di Pascoli e Verdi, parliamo di persone realmente esistite. Il tuo percorso professionale è fatto di tante “storie vere”.
“Storie che ti spingono a rapportarti con attenzione e rispetto nei confronti dei protagonisti per cercare di coglierne l’essenza dell’anima. Come quando ho interpretato il giudice Rosario Livatino o Don Luigi Di Liegro. Interpretare Livatino in Il giudice ragazzino è stato uno degli atti più delicati e toccanti della mia carriera. Abbiamo girato pochi anni dopo il suo assassinio, e i genitori erano ancora vivi. Incontrarli è stato emozionante e difficile: vedere la sua stanza, le sue videocassette (pensavo fosse una trovata della sceneggiatura, ma era realmente un appassionato di cinema) … è qualcosa che ti rimane dentro per sempre. Con Don Di Liegro, invece, ho raccontato una figura straordinaria: un uomo di fede e di azione, capace di scontrarsi con il potere per difendere i più deboli. Ricordo ancora l’episodio di Villa Glori, quando “occupò” un centro per malati di AIDS prima che il Comune potesse bloccarlo: chiese l’autorizzazione a usarlo dopo averlo già riempito. Non poteva lasciarli morire per strada. Di Liegro aveva anche un’ironia tagliente e una forza politica rara per un prete. Era anche dotato di una sottile ironia. In occasione di un matrimonio misto, definì un musulmano “un buon cristiano”, annullando con la sua risposta etichette e divisioni”.
Il giudice Rosario Livatino: un incontro che lascia il segno
Per interpretare Il giudice ragazzino, hai incontrato i genitori di Livatino. Cosa è rimasto a Giulio Scarpati di quell’esperienza?
“Un’emozione fortissima. Stavamo girando a pochi anni dalla sua morte. I genitori, Rosalia e Vincenzo, erano ancora vivi e ci tenevano a conoscermi. Ero spaventato, temevo di essere per loro una presenza dolorosa. Ma sono andato, nonostante fossi terrorizzato dall’idea che mi vedessero come un “clone” del figlio. È stata un’esperienza che porterò sempre con me: questo lavoro mi dà la possibilità di fare anche incontri umani sconvolgenti. I Livatino mi hanno accolto con una dolcezza e una forza straordinarie, nella loro casa con le persiane socchiuse per evitare il caldo. La madre aveva uno sguardo penetrante, mi ha toccato la fronte e ha detto: “Rosario li portava così i capelli”. Mi ha gelato. Il padre, un uomo molto ironico, mi ha abbracciato piangendo quando stavo per andare via. Ho capito in quel momento quanto il nostro lavoro possa diventare qualcosa di sacro, di profondamente umano. Nonostante fosse venuto con me un fotografo, ho chiesto che non si scattassero foto, per rispetto: mai avrei voluto che sembrasse una trovata pubblicitaria. Dettaglio che ha fatto sì che con il tempo tornassi a trovarli per andare insieme in visita alla cappella di famiglia. Mi è dispiaciuto che i Livatino siano morti prima di vedere la beatificazione del figlio: poteva per loro essere una sorta di risarcimento morale, una forma di conforto”.

Vita privata e momenti di svolta personale
Un ricordo personale, del Giulio Scarpati uomo, non professionale, che conservi invece gelosamente?
“È difficile rispondere. Sono sempre stato molto riservato sul mio privato. La felicità, per me, è qualcosa di fragile, che va protetto e che percepiamo per poco tempo: per citare Pascoli, “Noi mentre il mondo va per la sua strada, noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno, e perché vada, e perché lento vada”. Forse è un retaggio culturale, forse un istinto. Ma ho sempre avuto pudore a esibire i miei momenti più intimi. Preferisco tenerli al sicuro, come in uno scrigno. Però è vero che certe emozioni personali inevitabilmente si intrecciano con il lavoro, e lì emergono. Ho voluto, ad esempio, essere presente alla nascita di entrambi i miei figli: quando è nata Lucia, la secondogenita, ero impegnato in uno spettacolo con il Teatro Stabile dell’Umbria con Annamaria Guarnieri che avrebbe dovuto fare tappa a Lugano, ma ho fatto di tutto per esserci. Era troppo importante. In quel caso, la vita e il teatro si sono incrociati in modo irripetibile. Come quando è morto mio padre. Stavo lavorando, ma ho fatto di tutto per andare a salutarlo: mi ero messo d’accordo con un tecnico che mi avrebbe accompagnato a Roma. Durante il viaggio, ho ricevuto la notizia della sua morte: sono andato lo stesso a salutarlo. E poi sono tornato sul palco. Quel giorno ho recitato con un peso enorme: ho fatto lo spettacolo ma, una volta terminato, non sono uscito per salutare il pubblico. Rientrando in camerino, sono crollato: avevo trattenuto le mie emozioni per raccontare i sentimenti di un bel personaggio. Non sempre the show must go on, non si possono mettere sullo stesso piano vita e lavoro”.
“Non sono mai riuscito a dirle grazie”, dice il comandante di Nereide. A chi deve dire “grazie” Giulio Scarpati?
“Non so se si possa parlare davvero di un “grazie” mancato. Ma c’è un episodio che porto con me con rammarico. Un mio caro amico, Roberto De Rubis, tecnico delle luci con cui ho condiviso gli inizi della mia carriera teatrale, si ammalò gravemente. Avrei voluto andarlo a trovare, ma non ce l’ho fatta. La verità è che avevo paura. Paura di vederlo cambiato, consumato dalla malattia. Ho rimandato troppo a lungo, e quando mi sono deciso era tardi. Era troppo malato, non era più possibile. Questo è uno di quei casi in cui capisci che la paura del dolore può farti compiere delle omissioni ingiuste. Perché ci sono persone che non meritano il nostro silenzio, la nostra assenza. E lui, Roberto, era uno di loro. Avevamo iniziato assieme in una piccola cooperativa teatrale negli anni ’70, portando spettacoli negli ospedali psichiatrici, nelle piazze, ovunque ci fosse bisogno. Facevamo tutto da soli: montaggio, luci, costumi. Quel teatro era una missione. E Roberto era parte di quella missione. Ma non posso non ringraziare Sergio Fantoni: abbiamo lavorato insieme in uno spettacolo fantastico quando lui era già un nome mentre tutti gli altri eravamo “poveri in canna”. Era veramente un signore e mi ha insegnato come accogliere gli altri o il ricordarsi di tutti, senza discriminazione alcuna. O Lucilla Morlacchi, grandissima attrice con cui ho avuto la fortuna di relazionarmi da giovane e di continuare a frequentare fino a quando è venuta a mancare. Sono stati sì incontri con loro nati per lavoro ma quei rapporti si sono tramutati in amicizia, in parte di vita privata”.
C’è un ruolo che ha cambiato in modo particolare Giulio Scarpati?
“Sì, ma non uno solo. Ogni esperienza lascia qualcosa. Il giudice ragazzino, certo. Ma anche il monologo su Pascoli, o il documentario su Verdi. E più di recente, un ruolo completamente diverso: un sensitivo in Cuori 3, diretto da Riccardo Donna, il regista del Medico in famiglia, mio grande amico. Mi sono divertito tantissimo sul set con Pilar Fogliati e Matteo Martari, due persone deliziose, ma anche con Riccardo, un regista che non urla. E nessuno dei registi con cui ho lavorato, nomi di una certa autorevolezza, ha mai alzato la voce: i grandi non hanno bisogno di farlo. Il lato umano ha sempre prevalso su tutto e in un lavoro narcisistico come il nostro si deve essere bravi anche a gestire il successo, le follie che possono derivare da un grande successo. Ogni volta che posso uscire dalla mia zona di comfort e interpretare qualcosa di nuovo, sento che cresco. Non mi interessa ripetermi. Cerco sempre lo scarto, il rischio, la trasformazione”.
Quindi, non pensi, eventualmente di poter tornare per una nuova stagione di Un medico in famiglia?
“Non credo. Quel progetto ha avuto un tempo perfetto, una magia irripetibile. Tornarci oggi mi sembrerebbe sbagliato: sono cambiate le epoche e le atmosfere. Servirebbe semmai una storia completamente nuova, con lo stesso spirito ma con un linguaggio diverso. Altrimenti rischia di diventare un’operazione nostalgica. E io ho paura delle riproposizioni: penso che si debba avere il coraggio di chiudere, quando è il momento. Questo non vuol dire che rinneghi il Medico: rimarrà sempre un progetto a cui sono molto legato ma che è connesso a una congiunzione astrale che ha permesso che tutto si incastrasse nel modo giusto”.
Viviamo in un Paese in cui spesso cinema e televisione non comunicano. Il successo di Un medico in famiglia, dirompente, ha influenzato il tuo percorso?
“Inevitabilmente. All’inizio, anch’io ero perplesso. Venivo dal cinema d’autore, da un certo teatro, e avevo paura che quel progetto mi “sporcasse”: lavorare con Lino Banfi… Ma ho capito presto che era un pregiudizio mio. La serie era scritta benissimo, con uno spirito autentico, e Lino un grandissimo attore. Ha parlato a milioni di persone. Non rinnego nulla, ripeto, anzi. Però credo che certi successi vadano lasciati andare. Ripetere i risultati del Medico è impossibile per via della frammentazione di oggi, dei mille canali tv e delle varie piattaforme di streaming: questo dovrebbe spingere ad aumentare la qualità e a sperimentare, non a ripetersi. Ci vorrebbe un po’ di coraggio: basti vedere cosa hanno fatto gli autori della serie Adolescence: un’idea che ti tiene incollato fino alla fine. Ho seguito ciò che desideravo, restando curioso e non smettendo mai di cercare. Ho iniziato a fare teatro a 12 anni, e a 16 studiavo con Elsa De Giorgi. Da allora non ho mai smesso. Per cui, ci vorrebbe sì maggiore apertura mentale ma mi è andata non bene ma di lusso: anche se non ho fatto un film che avrei voluto fare, non mi posso lamentare. Non sarebbe neanche giusto: va bene e penso che mi toglierò delle soddisfazioni continuando a cercare dentro me stesso e a mettermi alla prova”.
Sarà Estranei, la nuova serie per Rai 1, un modo per mettersi alla prova?
“Non lo so ancora, non so calcolarlo. Le situazioni maturano con tempi tutti loro: quando meno te lo aspetti, arriva qualcosa che ti piace. Ecco perché non mi lamento: sono felice delle cose che ho assaggiato, delle emozioni che ho vissuto e dei personaggi che ho interpretato. Non posso guardarmi indietro, sarebbe una pratica inutile. Quello che semmai mi serve davvero è continuare a stimolare la mia curiosità”.
Un attore in continuo divenire: chi è oggi Giulio Scarpati se venisse rappresentato con un fermoimmagine?
“Un giardiniere. Il giardiniere osserva, ascolta, cura. Non impone, ma accompagna. Questo è il mio modo di stare nel mondo. Non sono più centrato su me stesso come un tempo. Mi interessa capire gli altri, prendermi cura. Anche nel lavoro: aiutare i colleghi, creare armonia in compagnia. Come faceva Sergio Fantoni, uno dei miei maestri. Il giardiniere non fa rumore, ma fa crescere”.
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